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8) La valutazione del rischio per gli agenti chimici non soggetti a REACH e CLP

Giunti ormai all’ottava puntata della nostra rubrica sul rischio chimico, andremo oggi a focalizzare l’attenzione su qualcosa a cui portruppo solamente pochi pongono la giusta attenzione: ossia tutto quello che una scheda di sicurezza non ce l’ha!

Il nostro tessuto industriale è pervaso dall’uso di agenti chimici, anche in industrie non chimiche, basti pensare a vernici, adesivi, oli idraulici, fluidi lubro-refrigeranti, sigillanti, materie plastiche, leghe metalliche, gas tecnici, detergenti. E abbiamo imparato che è parte integrante del lavoro di ogni azienda ricevere informazioni sulle sostanze e miscele acquistate dai propri fornitori e implementare tali dati per la corretta valutazione e gestione del rischio chimico. È tuttavia meno scontato prendere coscienza del fatto che anche prodotti non pericolosi possono generare situazioni di rischio. Meno scontato anche in virtù delle limitate informazioni che spesso si hanno su tali sostanze e miscele. Il fatto che non sussista l’obbligo formale di redigere un documento secondo quanto previsto dell’allegato II del Regolamento REACH non significa che per il prodotto chimico non vi siano delle informazioni rilevanti da trasmettere lungo la catena di approvvigionamento: il fine di tali documenti è garantire la gestione del rischio associata agli agenti chimici come previsto dal D.Lgs. 81/2008 in materia di sicurezza sul luogo di lavoro.

Esistono dunque a tal proposito tre casi che talvolta, se si considerano il campo di applicazione e i criteri di classificazione del Regolamento CLP, portano a sottovalutare alcune informazioni molto importanti in termini di gestione dei rischi.

 

Le sostanze generate dai processi

In moltissimi ambiti industriali, ad esempio, può capitare di avere a che fare con uno o più dei seguenti prodotti: oli lubrificanti/fluidi lubro-refrigeranti; materie plastiche granulari; leghe metalliche in pani/lingotti. Nella maggioranza dei casi questi prodotti sono classificati come non pericolosi ai sensi del Reg. CLP e pertanto dovrebbero giungere in azienda accompagnati da una “scheda informativa” (ai sensi dell’art. 32 del Reg. REACH) o al più da una “SDS su richiesta” (ai sensi dell’art. 31, par. 3 del Reg. REACH). In realtà la non pericolosità ai sensi del Reg. CLP di questi prodotti è causa talvolta di una loro scarsa o nulla considerazione ai sensi della valutazione del rischio chimico (situazione favorita dal fatto che vengono fornite informazioni generiche e di scarsa utilità per identificare i possibili rischi che generano), o addirittura in alcuni casi vengono erroneamente trattati come articoli. In realtà, in conformità alla definizione di agenti chimici pericolosi ai sensi dell’art. 222, comma 1, lettera b), punto 3 del D.Lgs. 81/2008 e s.m.i., questo sono sostanze e miscele non classificate come pericolose ai sensi del Reg. CLP ma che possono comunque generare situazioni di rischio a seconda, per esempio, delle condizioni in cui vengono impiegate.

In particolare gli oli lubrificanti o i fluidi lubro-refrigeranti, pur non essendo pericolosi ai sensi del Reg. CLP, possono generare le cosiddette “nebbie oleose” a seguito del loro impiego nelle classiche lavorazioni tipiche dell’industria metalmeccanica. Tali nebbie, composte principalmente da oli minerali, idrocarburi, aldeidi e talvolta composti eterociclici, costituiscono un rischio per la salute dei lavoratori a seguito di inalazione sotto forma di aerosol.

Molte materie termo-plastiche sono spesso commercializzate in forma granulare per essere poi lavorate per lo stampaggio. Le plastiche in questione sono generalmente non classificate pericolose ai sensi del Reg. CLP, tranne quando eventuali additivi (es.: triossido di antimonio per le plastiche antifiamma) ne determinano una classificazione di pericolo. Tali materie possono però generare rischi nel loro utilizzo normale. Uno di essi è dovuto all’esposizione inalatoria alle eventuali polveri che si possono generare a seguito delle operazioni di trasferimento, di caricamento delle tramogge, o dalla macinazione di materozze o di pezzi stampati fuori specifica. Ma è soprattutto in fase di stampaggio che le materie plastiche estrinsecano i rischi peggiori. Le alte temperature di processo (da 150°C a 250-300°C) provocano infatti una parziale decomposizione della plastica stessa durante la fase di stampaggio. Si sviluppano sostanze chimiche altamente pericolose che variano in funzione della tipologia di materia plastica stampata: idrocarburi aromatici, aldeidi, chetoni, alcheni, ammine, eccetera.

Caso analogo è dato, per esempio, dall’uso di leghe metalliche in processi termici, quali ad esempio la saldatura. Le alte temperature determinano la formazione dei cosiddetti “fumi di saldatura”: una miscela complessa di molteplici agenti chimici (dipendenti dal tipo di metalli saldati e dal processo utilizzato) costituita da metalli allo stato vapore e/o particolato fine. La valutazione di tale rischio risulta complicata anche in virtù del fatto che le SDS o le schede informative delle leghe non solo non riportano i pericoli delle sostanze che si generano nel processo di saldatura, ma spesso nemmeno citano tale rischio.

Gli esempi qui citati costituiscono soltanto i casi più macroscopicamente evidenti di sostanze/miscele non classificate come pericolose che generano rischi anche molto gravi durante il loro normale utilizzo. 

 

Le sostanze senza informazioni

Il reg. REACH è nato principalmente, grazie ai processi di registrazione, con l’intenzione di arrivare a conoscere tutte le sostanze fabbricate o importate sul suolo Europeo sia dal punto di vista tossicologico che ecotossicologico. Il regolamento stesso prevede però una serie di esenzioni a tale obbligo in quanto si presuppone che tali sostanze siano già state debitamente caratterizzate o debbano esserlo in virtù del fatto che rientrano in altre legislazioni (per es. principi attivi farmaceutici, veterinari, biocidi o fitosanitari).

Gli intermedi, cioè le sostanze che vengono fabbricate o importate per essere modificate chimicamente al fine di produrne di nuove e completamente diverse, sono soggetti per esempio ad una registrazione semplificata: è possibile non produrre alcun tipo di dato tossicologico (contrariamente alla registrazione REACH normale) a patto che si dimostri che in tutto il ciclo di vita non avvenga alcun tipo di esposizione all’uomo o verso l’ambiente dell’intermedio stesso. Questo requisito tecnico, denominato SCC (Strictly Controlled Conditions) è la condizione necessaria affinché la sostanza possa essere caratterizzata scientificamente (quindi anche classificata ed etichettata) con i soli dati di cui il fabbricante/importatore è a conoscenza. Ahimè questa esenzione, che permette di scontare la redazione del CSR (Chemical Safety Report) e degli scenari di esposizione, è stata cavalcata dalle aziende ben più di quanto era effettivamente possibile, creando delle situazioni di palese non conformità e di rischio soprattutto per i lavoratori, anche delle aziende utilizzatrici a valle che in molti casi nemmeno sono a conoscenza di usare una sostanza configurata come intermedio.
 

 

I rifiuti

E cosa facciamo quando gli agenti chimici pericolosi sono completamente fuori dal campo di applicazione dei Reg. REACH e CLP?  Prendiamo ad esempio un recuperatore di rifiuti, che conosce la loro classificazione in termini di frasi HP (secondo il regolamento 1357/2014/UE), ma difficilmente possiede informazioni dettagliate in merito alla composizione dello stesso, in quanto il produttore dei rifiuti non è tenuto a fornirne la scheda dati di sicurezza. Ecco che a fronte, ad esempio, di una classificazione del rifiuto come HP6, tossico, non è facile risalire alla/e sostanza/e che comportano tale classificazione né, e ciò è ancor più grave, è spesso possibile appurare se il rifiuto è tossico o semplicemente nocivo ai sensi del CLP. Come affrontare dunque la valutazione del rischio? Come recuperare le informazioni necessarie? Tali difficoltà non si riscontrano solo nel caso dei rifiuti, ma anche nel caso di cosmetici, di dispositivi medici, di farmaci, di alimenti, categorie di prodotti per le quali la trasmissione delle informazioni non è normata dai suddetti regolamenti. Diventa quindi necessario costruire un canale di comunicazione con i propri fornitori per riuscire a reperire le informazioni di interesse, predisponendo idonee e specifiche richieste. Ove ciò non sia possibile, deve essere considerata, ai fini della valutazione del rischio, la classificazione peggiorativa/cautelativa del prodotto in esame, a meno di non effettuare indagini analitiche per proprio conto. 

 

Conclusioni

La conclusione è quasi banale ma non scontata: ossia che anche questa ottava puntata .. sia di estrema importanza nell’ambito della valutazione del rischio, in modo da permettere al datore di lavoro di esser ben consapevole delle criticità sopra illustrate. Per poter sopperire alla carenza di informazioni dovrà quindi attivarsi innanzitutto con i propri fornitori, richiedendo quanti più dettagli possibili sulle sostanze/miscele in ingresso (compresi i rifiuti), ma soprattutto affidarsi un valutatore con conoscenza ed esperienza.

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